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martedì 18 dicembre 2018

169. RECENSIONE56: La Gravità del Buio by Marmo

LISTA RECENSIONI 


La Gravità del Buio è il secondo Ep del duo strumentale da Forlì MARMO, uscito a Marzo 2018, dopo due anni dal precedente Inside. Il post metal della band romagnola, ispirato alle sonorità anni '90 tipiche del genere, acquisisce ora venature hardcore e noise ma si arricchisce anche di una certa dose di melodia che non solo non guasta, ma dona un po' di leggerezza all'incedere pesante dell'album, come suggerito dal titolo stesso.
4 pezzi per poco più di 24 minuti d'ascolto che potrete ascoltare in versione integrale ed approfondire grazie alla penna minuziosa del nostro recensore Cesare Businaro. Per ogni approfondimento rimando all'articolo appena postato (qui) con tanto di intervista ai fondatori Campione Frizzino e Gianluca Piras. Non mi resta che augurarvi: buon ascolto e buona lettura!

Video:
Lilith” Official Video https://www.youtube.com/watch?v=qn9QopYve3A

Contatti Band:

La Gravità del Buio credits:
Registrato mixato masterizzato da Maicol Caggiano presso Soundscape Studio Forlì
Pubblicato Marzo 2018
Formato Cd e digitale

Lo ascolti QUI

La Gravità del Buio 2018
E' un brutto posto dove vivere
(PostMetal, NoiseCore)

1. Lilith
2. In my Room
3. Madre
4. Il Buio

RECENSIONE
MARMO "La Gravità del Buio"
Ep 2018 E' un brutto posto dove vivere

Avevo già ascoltato e apprezzato il lavoro precedente dei Marmo, “Inside”, scaricandolo dalla loro pagina su Bandcamp, immediatamente dopo aver letto biografia della band e intervista al “Faro”, il loro mentore, proprio su Edp: la lettura mi aveva particolarmente incuriosito, oltre che per la proposta di un genere normalmente caratterizzato da una stratificazione sonora difficilmente riproducibile con nient’altro che una chitarra e una batteria (noise/post-metal, come loro stessi si definiscono e si “taggano” su Bandcamp), anche e soprattutto per i loro espliciti riferimenti ad una delle mie band preferite di sempre, ovvero i seminali Helmet del “maestro” Page Hamilton.

Su queste premesse, quando Giusy mi ha chiesto di recensire il seguito, “La Gravità del Buio”, non me lo sono fatto ripetere due volte ed eccomi qua!

Ricevo il CD per posta direttamente dalla loro etichetta, “E’ un brutto posto dove vivere” e sia il formato, che il comparto grafico dell’album, rispecchiano, anzitutto, il minimalismo della band: la custodia è ancora più essenziale di un jewel case o di un digipack; il CD, tutto nero, senza alcuna scritta e con su stampato il logo del duo, una sorta di stella a sette punte, che mi chiedo se nasconda una qualche valenza esoterica, alloggia infatti in un semplice pieghevole, con un gommino centrale a sostenerlo. Sul lembo opposto, all’interno del pieghevole, campeggiano, circondati dallo stesso logo, i soli titoli delle 4 tracce del CD, lo studio di registrazione (il Soundscape di Forlì) e l’autore di artwork e layout (STRX, di cui scopro via Google la pagina su Facebook, perdendomi in una galleria d’illustrazioni semplicemente affascinanti e davvero indicate per copertine di album e manifesti di concerti, soprattutto in ambito stoner o doom-metal: complimenti ai Marmo per la scelta azzeccatissima!). Il valore aggiunto di un album strumentale è pure il suo prestarsi alla libera interpretazione di chi lo ascolta e a parte i titoli del CD e delle singole tracce, non dispongo di altre chiavi di lettura per così dire autentica, per poter intuire (o tirare a indovinare), il significato dell’immagine di copertina nelle possibili intenzioni della band, ma personalmente ci vedo una sorta di paesaggio lunare, vulcanico o spettrale, su cui s’innalza, nel lembo frontale del pieghevole, una specie di monolite di “kubrickiana” memoria e che, dal lembo posteriore, sembra minacciosamente preso di mira da un’entità mostruosa o nebulosa, forse il buio a cui allude il titolo dell’album…

In questo immaginario, inserisco quindi il CD nel mio lettore portatile, indosso le cuffie e premo il tasto play.

L’EP si compone, come anticipato, di 4 tracce e se fosse un vinile, sono certo che ce ne starebbero due per lato; la durata dei pezzi è infatti speculare: il primo e il terzo sforano i 4 minuti, il secondo e il quarto i 7 e l’album è per così dire idealmente suddiviso in due parti, anche dall’uso dell’italiano per i soli titoli delle ultime due tracce (“Madre” e “Il Buio”), laddove le prime due s’intitolano “Lilith” e “In My Room”.

La prima traccia viene introdotta dal soffio di un vento desertico, a fare da sfondo, dopo una manciata di secondi, a un blando ritmo di batteria, inizialmente scandito da un sonaglio e un malinconico arpeggio di chitarra, che sembrano voler anticipare l’evoluzione stilistica della band, rispetto al lavoro precedente. Se “Inside” partiva subito come uno schiacciasassi, con riff “droppati” e ritmi serrati di scuola “helmetiana”, saldati con la precisione chirurgica di quella pietra miliare che è stato “Meantime”, indiscusso e insuperato capolavoro della premiata ditta di Hamilton e soci, qui la band ci accompagna lentamente verso lidi più cupi, introspettivi e indemoniati. Non a caso, credo, il titolo del primo pezzo, “Lilith”, è il nome di un’antica divinità mesopotamica, più precisamente il demone femminile della tempesta, una tempesta qui preannunciata, appunto, dal rumore del vento. L’arpeggio iniziale lascia spazio, dopo qualche battuta, alla sua versione più tirata e distorta. Se la roboante saturazione della chitarra e la tonalità minore del riff rimandano al post-metal dei primi Pelican (o dei più recenti Telepathy), il ritmo, che si fa man mano più incalzante, orienta quasi il pezzo verso lo stoner dei primi Karma to Burn, finché non s’innesta, più o meno a metà della traccia, un repentino cambio di tempo, a riportare il duo sulle soluzioni ritmiche e lo spessore sonoro di “Inside”: è forse il passaggio, di tutto il disco, che meglio lega questo nuovo lavoro al suo predecessore e che apprezzo particolarmente per la capacità, appunto, di proiettare l’immediatezza del noise/crossover, già fatto proprio dai Marmo nell’EP di debutto, in una dimensione più ricercata. Dal punto di vista tecnico, pur nell’esplorazione di nuovi orizzonti sonori, il duo mantiene in ogni caso il minimalismo dell’esordio: i Marmo sono in due e non ricorrono ad alcun espediente o trucco che dir si voglia (over-dubbing, dual-amping, pitch-shifting, looper, sequencer, ecc.), per colmare l’assenza di un basso o comunque di altri strumenti nell’organico del gruppo. La chitarra di Frizzino è infatti abbastanza carica di frequenze da renderlo superfluo e l’imponente batteria di Piras, oltre a scandire la struttura dei pezzi, ne detta la dinamica, accentuando ulteriormente, quando occorre, la pressione sonora di una distorsione già spinta, di per sé, verso i massimi livelli di saturazione, se non oltre. In questo, escludendo comunque che ne siano stati influenzati, visto che si tratta di una formazione più o meno coeva e pressoché sconosciuta in Italia, i Marmo mi ricordano un altro duo, i bostoniani INTRCPTR, un side project di Larry Herweg, noto come batterista – guardacaso – dei già citati Pelican e di Ben Carr, già chitarrista dei 5ive (anche loro un duo). Ecco, se mai un fan degli INTRCPTR dovesse leggere questa recensione, è il primo a cui raccomanderei l’ascolto dei Marmo (si troverebbe certamente in famiglia).

Il secondo pezzo, “In My Room”, è forse un remake dell’omonima traccia che, leggendo una recensione ad “Inside”, scopro aver già fatto parte del primissimo demo dei Marmo. Non ne ho riscontro, in quanto non dispongo di copia del demo e non trovo in rete nemmeno uno streaming del pezzo, ma sarei curioso di confrontarli, se davvero si tratta dello stesso brano, per coglierne le differenze e valutare anche sotto tal profilo l’evoluzione della band. Ad ogni modo, dopo alcuni ascolti del CD, penso di poter dire che si tratti della mia traccia favorita. Una sorta di mini-suite in 4 atti, introdotta da una monolitica sequenza di accordi, la cui satura risonanza è arricchita dalla sovrapposizione di una specie di effetto rotatorio (forse un tremolo settato molto lento?), che ascoltando il brano in cuffia dà una sensazione di avvolgimento. Ho già menzionato i Pelican e il primo atto di questa suite mi rimanda, in effetti, al loro mitico e mastodontico “Australasia”: è l’incedere man mano più incalzante del ritmo, ad accompagnare il pezzo, quasi fosse una colata lavica o un movimento tellurico, verso gli atti successivi, sapientemente legati fra di loro, grazie a un’ottima progressione armonica, dai toni sempre più drammatici; il secondo e il terzo atto sono quelli più concitati, in cui la band esprime maggiormente la sua vena noise, prima di riallacciarsi, pur senza rallentare il tempo, al sapore più melodico dell’introduzione, mentre è decisamente più brusca la transizione verso l’atto finale; d’un tratto, la nave si ferma, come squarciata da un iceberg e affonda inesorabilmente in acque gelide, accompagnata da una sequenza di accordi e brevi cenni ad arpeggi tanto cupi e riverberati, da ricordarmi certo nautic-funeral/doom-metal di matrice teutonica (penso, per esempio, agli Ahab e alle loro immersioni sonore negli abissi marini).

Nel terzo pezzo riappare lo schiacciasassi: poco più di un minuto e mezzo per radere al suolo tutto ciò che gli si para davanti; qui i Marmo rendono merito alla pesantezza del loro nome. La conta dei cadaveri è affidata, subito dopo il passaggio della macchina da guerra, a una figura femminile, probabilmente la “Madre” che dà il titolo a questa traccia; a una chitarra pulita, che lentamente scandisce i sedicesimi di questo interludio dal sapore post-rock, si sovrappone quindi un monologo femminile in inglese, l’unico inserto vocale di tutto l’album: in mancanza di credits, come detto, nella custodia del CD, non so dire se si tratti di una linea vocale appositamente scritta e registrata per il pezzo o forse dell’audio di un film, che comunque non riconosco, facendo anche fatica, per la verità, a distinguerne le parole (il mixaggio la mantiene comunque bassa, rispetto alla base musicale). Ad ogni modo, il timbro di questa voce fuoricampo ben accentua i toni più introspettivi di tutto lo stacco, preparando all’esplosione finale: negli ultimi due minuti del brano, infatti, la chitarra si fa distorta, più riverberata e il post-rock dell’interludio si fa post-metal, proponendo uno dei passaggi più intensi e coinvolgenti dell’opera, che a tratti richiama il post-hardcore catartico dei Rosetta e il loro “metal per astronauti”, come gli stessi amano definirlo.

A chiudere questa seconda coppia di pezzi, specularmente ai primi due, è il quarto e ultimo brano: “Il Buio”. Si tratta ancora di una traccia strumentale, ma per come l’hanno chiamata, è facile presumere che la band abbia inteso attribuirle il ruolo di title track. A calarci nella penombra, è in questo caso un’avvolgente introduzione di batteria, dalle tinte tribali, che s’innesta su accordi resi eterei da un breve delay e un pizzico di flanger (o effetti simili), tanto morbidi da contribuire ad accentuare l’impatto invece devastante del riff, estremamente distorto, che ne seguirà dopo qualche istante. Anche in questo frangente, il duo non fa prigionieri e non c’è luce all’orizzonte, ma proprio per nessuno. Il brano è un’escalation di flagellante potenza sonora per tutta la sua prima metà, fino a quando cioè, esattamente a 3’38’’, una sequenza d’isolati colpi di grancassa e piatti, in perfetta sincronia con altrettanti powerchord, tanto serrati da suonare come colpi di grazia, introducono a un finale più lento, cadenzato, ma ugualmente distorto, in cui Frizzino sembra suonare contemporaneamente accompagnamento e melodia. Ai powerchord, fragorosi come non mai e che continuano a scandire il tempo via via più dilatato del pezzo, si sovrappongono infatti note lancinanti, più acute e dissonanti, che vanno a traghettare l’ascoltatore, come una sorta di nocchiero infernale, verso l’oscurità di una meta ignota. Degna chiusura di un lavoro che, in conclusione, ci propone una band evidentemente più matura che nel precedente “Inside” e ben più consapevole, sia delle sue capacità, che, se vogliamo, dei limiti di una formazione tanto ridotta, ma comunque in grado di trasformare quegli stessi limiti in punti di forza, mostrandosi, anche per questo, ormai pronta per il grande salto, ovvero un LP.

Il mio voto, ovviamente soggettivo, vuol essere in questo senso un incoraggiamento (e al contempo un augurio), perché “La Gravità del Buio” possa avere al più presto un seguito sulla lunga distanza.


Cesare Businaro
7/10


Articolo ad opera di Giusy Elle


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