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sabato 22 febbraio 2020

196. RECENSIONE68: Natural Extinctions by The Haunting Green

LISTA RECENSIONI


Natural Extinctions è l'album di esordio del duo friulano THE HAUNTING GREEN. Sebbene si siano formati già nel 2012 e il primo Ep risalga a due anni dopo, i tempi d'attesa hanno datto i loro bellissimi frutti, in questo album di marzo 2019, riconosciuto dalla critica del settore come un piccolo capolavoro. Del resto come poteva essere diversamente? All'incedere lento del doom e a certe sonorità cupe, il chitarrista e compositore Cristiano Perin aggiunge sempre atmosfere toccanti, dense di emozioni, un mix di anima e cuore che non può lasciare indifferente l'ascoltatore dei più svariati generi musicali.

La compagna d'avventura musicale è invece Chantal Fresco, ligure naturalizzata friulana, che con il suo drumming personale confeziona alla perfezione gli input musicali di Cristiano. Il risultato è un insieme di linguaggi sonori, ben amalgamati in uno stile personale, che partono dal black metal atmosferico, fino a coprire tutta la gamma del post-genere (-core, -rock, -metal); se poi ci aggiungiamo influenze drone e ambient, si intuisce che la miscela può essere più che vincente.

Il Cacciatore Verde, nella mitologia nordica, era un essere in grado di coprire il divario tra la Natura Selvaggia e l'uomo evoluto, riportando quest'ultimo alle sue origini primordiali. In Natural Extinctions, concept album sull'argomento, si approfondisce questa tematica, tra speranza di successo e constatazione di quanto l'Uomo si sia messo al di sopra di tutto e di tutti, perdendo, con la propria arroganza, ogni possibilità di recuperare il lato più puro e primordiale che c'è in lui. Le conclusioni a cui giungono i due, sono purtroppo pessimistiche e senza speranza, nonostante -o forse proprio per questo- la grande sensibilità e saggezza dei compositori.

Lalbum è dedicato a Black Mamba, il rottweiller di Chantal e la mascotte della band, un essere che nella sua purezza faceva ancora da ponte verso quella Natura Selvaggia tanto decantata dal duo. Da non perdere il toccante elogio che ne fa la stessa Chantal in fase d'intervista (qui).

Dalla main track "Where Nothing Grows", nasce infine un bel video, scritto e personificato dalla stessa batterista che in questo progetto ha condensato tutto il concept del duo. L'album esce quasi un anno fa, per la canadese Hypnotic Dirge Records, e vanta collaborazioni del calibro di Fabio Cuomo (outro nella versione album di "Where Nothing Grows") mentre la ricca e splendida copertina è opera della sensibilità di una cara amica della band, Jessica Rassi del The Giants Lab.

Per la biografia della band, la ricca ed interessante intervista a Cristiano e Chantal e la presentazione della Hypnotic Dirge, rimando al nostro articolo appena pubblicato, mentre qui vi lascio all'ascolto di questo splendido Natural Extinctions, descritto con dovizia di particolari dal nostro recensore di fiducia Cesare Businaro. Come sempre: buona lettura e buon ascolto!


Video:
"Where Nothing Grows" (2019) https://www.youtube.com/watch?v=q46pxzi8r1I
"Our Days in Silence" (2015) https://www.youtube.com/watch?v=6qf9pZHKTcg
"Blind Me now" Live@Spazio Zero https://www.youtube.com/watch?v=2luthyO7z4Y


Contatti Band:
Fb / Bandcamp / Spotify / Youtube Channel


Natural Extinctions credits:
Scritto e suonato da The Haunting Green: Cristiano Perin (Chitarra, voce e sintetizzatore) e Chantal Fresco (Batteria, percussioni e cori)
Registrato, masterizzato e mixato @El Fish Recording Studio (Genova) da Emanuele Cioncoloni
Chitarra e basso registrati al YourOhm Studio da Marco Verardo
Cover art: Jessica Rassi (The GiantsLab
Pubblicato il 5 Marzo 2019
Formato: Cd digipack e vinile
Etichetta: Hypnotic Dirge Records (Canada)


Qui lo ascolti

Natural Extinction 2019
Hypnotic Dirge Records
(Doom, Black Metal, Ambient)

1. Lazarus Taxon
2. Natural Extinctions
3. The Void Above
4. Litha
5. Where Nothing Grows
6. Rites of Passage
7. Luminous Lifeforms


RECENSIONE
THE HAUNTING GREEN "Natural Extinction"
Lp 2019 Hypnotic Dirge Records

A giudicare dal logo “spinoso”, tanto fitto e aggrovigliato da risultarmi indecifrabile, se il loro nome non fosse riportato in stampatello anche sul dorso della copertina, mi sarei aspettato, non avendo mai ascoltato il duo di Pordenone, prima di metter mano al loro ultimo CD (e mi perdonino per questa mia lacuna), dell’insano e gutturale Technical Death-Metal, ma vedo dalla loro pagina su Bandcamp che i The Haunting Green (al secolo, Cristiano Perin, voce, chitarra ed elettronica e Chantal Fresco, batteria e voce), si autodefiniscono, principalmente, un più sofisticato (e presumibilmente di più larghe vedute), gruppo Black, Doom, Post e Sludge-Metal.

Si tratta di stili e sottostili, che pur con tutte le riserve mentali che si possono fare, rispetto a qualsiasi tentativo di etichettatura, mi rimandano, volendo attingere dal mio catalogo di preferenze musicali, ad esponenti quali Mastodon, Pelican, Sleep e Russian Circles, tanto per citare i nomi (almeno per me) più blasonati e che più spesso si alternano nelle mie playlist, se non agli Ahab, ai Dreamarcher o agli Omega Massif, a voler scavare un po’ più in profondità, ma in ogni caso a formazioni ben più articolate di un mero duo di chitarra/voce e batteria, per cui mi accingo all’ascolto del platter con una certa dose di attenzione e curiosità, soprattutto per come possa una formazione a struttura minimale, interpretare un genere fortemente caratterizzato dalle dimensioni “ciclopiche” delle sue trame sonore.

In realtà, il disco si rivela, fin da subito, spiccatamente orientato, non solo alla commistione fra i suddetti generi e sottogeneri, di cui il duo, senza affatto deficitare in termini di decibel e aggressività, si dimostra dalla prima all’ultima traccia un profondo conoscitore (ragion per cui, Natural Extinctions non deluderà certamente chi è già avvezzo alla materia), bensì alla loro reinterpretazione in chiave, per così dire, “sciamanica” o “tantrica”, per l’uso “ambientale” di certi synth e droni, che vanno a stratificarne la proposta sonora ben oltre gli strumenti principali della band.

E così, la prima traccia (“Lazarus Taxon”), totalmente strumentale, introduce la “classica” e dinamica alternanza (alle mie orecchie tipicamente Post-Metal), fra power-chord “monolitici” e crescendo in tremolo-picking, con arpeggi dal sapore orientale (anche per un sitar o qualcosa di simile in sottofondo), intrecciati a percussioni tribali, che sembrano voler “iniziare” l’ascoltatore a una sorta di rituale esoterico (le prime battute mi riportano alla “The End” dei mitici The Doors).

La title-track, a seguire, suona invece più d’impatto, virando “mastodonticamente” verso un più truce Sludge-Metal e “arando” un terreno più fertile per quella che è la prima delle quattro prestazioni canore del chitarrista su tutto il disco, le cui urla in stile Black (o Death-Metal) scandinavo (cfr., per esempio, gli Amon Amarth), ben si conciliano con le liriche, inneggianti – da quel che resta di un campo di battaglia (“…after so many battles…”) – all’inesorabile destino di un’umanità dilaniata dai conflitti, se non da se stessa (“…a lack of empathy is dividing us…”, “…there’s no hope to survive this time…”, “…we are a natural extinction…”): quasi come quiete dopo la tempesta, un intreccio di chitarre pulite e riverberate, affonda peraltro la veemenza “bellica” del riffing iniziale verso la sordità degli abissi marini, tingendo la proposta Black/Doom del duo anche di certo Nautik Funeral Doom-Metal di matrice teutonica (vi ritrovo, infatti, la stessa ricerca sonora dei sopracitati Ahab, maestri nel riprodurre la rifrazione del suono nell’acqua, soprapponendo effetti di riverbero a cascata).

Il terzo pezzo (“The Void Above”), cantato come il precedente e non meno pessimista di quello, nel preannunciare – come un cataclisma – quanto si profili all’orizzonte umano (“…in the crypts of your eyes something irremediable is coming…”, “…time is devouring us…”, “…and nothing good is going to be left…”), è forse il brano in cui la vena Black/Doom della band, con l’arpeggio “sabbathiano” che lo introduce, spicca maggiormente e il suo fragore dà ancor più risalto, per contrasto, alle sonorità Ambient della quarta traccia (“Litha”), la seconda strumentale: qui, su un tappeto di percussioni e idiofoni (o synth programmati per riprodurli), la band va persino ad esplorare il Neo-Folk dei Wovenhand, espandendo ulteriormente la sua proposta musicale; la traccia suonerà, nel prosieguo dell’ascolto, come una sorta di spartiacque.

Infatti, i tre pezzi a seguire, l’ultimo dei quali nuovamente strumentale, mostrano una band, per così dire, più riflessiva, in cui le tinte più estreme (e metallare) del loro caleidoscopio sonoro, lasciano spazio alla sinuosità di un Post-Rock più melodico, che a tratti mi rimanda ai Pelican di “City of Echoes”, sfociando –in coda alla quinta traccia, “Where Nothing Grows”– in un finale al pianoforte (“cameo” dell’amico Fabio Cuomo), che va ad arricchire ulteriormente la “tavolozza” del duo e così a svelarne, in conclusione, lo spessore artistico e la capacità di cimentarsi in “partiture” più complesse, rispetto ai cliché dei generi e sottogeneri sopra citati.

Quanto alle liriche, il tema di questa parte del disco, nonostante la vena più melodica, è non meno pessimista e catastrofico di quello narrato nei primi testi (“…this land has no mercy on us…”) e così la penultima traccia (“Rites of Passage”), introdotta da un arpeggio stratificato con un rapido delay, che va ad accelerare sensibilmente il ritmo di base – più blando e cadenzato – finora mantenuto dalla band, ci racconta finalmente il “passaggio” evocato e minacciato in precedenza (“…burning my ghosts…”, “…and my heart lingers in the wonder while flames burn the paths where I came from…”).

L’ultima traccia (“Luminous Lifeforms”), la terza strumentale, va a chiudere il cerchio aperto con la prima, sostanzialmente ribadendo il gusto “atmosferico” del duo e riproducendo le soluzioni stilistiche dei brani immediatamente precedenti, quelli più tendenti al Post-Rock, ma con l’innesto di un malinconico assolo di chitarra.

Cesare Businaro
7,5/10



Articolo ad opera di Giusy Elle

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