Natural Extinctions è l'album di
esordio del duo friulano THE HAUNTING GREEN. Sebbene si siano formati
già nel 2012 e il primo Ep risalga a due anni dopo, i tempi d'attesa
hanno datto i loro bellissimi frutti, in questo album di marzo 2019,
riconosciuto dalla critica del settore come un piccolo capolavoro.
Del resto come poteva essere diversamente? All'incedere lento del
doom e a certe sonorità cupe, il chitarrista e compositore Cristiano
Perin aggiunge sempre atmosfere toccanti, dense di emozioni, un mix
di anima e cuore che non può lasciare indifferente l'ascoltatore dei
più svariati generi musicali.
La compagna d'avventura musicale è
invece Chantal Fresco, ligure naturalizzata friulana, che con il suo
drumming personale confeziona alla perfezione gli input musicali di
Cristiano. Il risultato è un insieme di linguaggi sonori, ben
amalgamati in uno stile personale, che partono dal black metal
atmosferico, fino a coprire tutta la gamma del post-genere (-core,
-rock, -metal); se poi ci aggiungiamo influenze drone e ambient, si
intuisce che la miscela può essere più che vincente.
Il Cacciatore Verde, nella mitologia
nordica, era un essere in grado di coprire il divario tra la Natura
Selvaggia e l'uomo evoluto, riportando quest'ultimo alle sue origini
primordiali. In Natural Extinctions, concept album
sull'argomento, si approfondisce questa tematica, tra speranza di
successo e constatazione di quanto l'Uomo si sia messo al di sopra di
tutto e di tutti, perdendo, con la propria arroganza, ogni
possibilità di recuperare il lato più puro e primordiale che c'è
in lui. Le conclusioni a cui giungono i due, sono purtroppo
pessimistiche e senza speranza, nonostante -o forse proprio per
questo- la grande sensibilità e saggezza dei compositori.
Lalbum è dedicato a Black Mamba, il
rottweiller di Chantal e la mascotte della band, un essere che nella
sua purezza faceva ancora da ponte verso quella Natura Selvaggia
tanto decantata dal duo. Da non perdere il toccante elogio che ne fa
la stessa Chantal in fase d'intervista (qui).
Dalla main track "Where Nothing
Grows", nasce infine un bel video,
scritto e personificato dalla stessa batterista che in questo
progetto ha condensato tutto il concept del duo. L'album esce quasi
un anno fa, per la canadese Hypnotic Dirge Records, e vanta
collaborazioni del calibro di Fabio Cuomo (outro nella versione album
di "Where Nothing Grows") mentre la ricca e splendida
copertina è opera della sensibilità di una cara amica della band,
Jessica Rassi del The Giants Lab.
Per la biografia della band, la ricca
ed interessante intervista a Cristiano e Chantal e la presentazione
della Hypnotic Dirge, rimando al nostro articolo appena pubblicato, mentre qui vi lascio all'ascolto di questo
splendido Natural Extinctions, descritto con dovizia di
particolari dal nostro recensore di fiducia Cesare Businaro. Come
sempre: buona lettura e buon ascolto!
Video:
"Where Nothing Grows" (2019) https://www.youtube.com/watch?v=q46pxzi8r1I
"Our Days in Silence" (2015) https://www.youtube.com/watch?v=6qf9pZHKTcg
"Blind Me now" Live@Spazio Zero https://www.youtube.com/watch?v=2luthyO7z4Y
Contatti Band:
Fb / Bandcamp / Spotify / Youtube Channel
Natural Extinctions
credits:
Scritto e suonato da The Haunting
Green: Cristiano Perin (Chitarra, voce e sintetizzatore) e Chantal
Fresco (Batteria, percussioni e cori)
Registrato, masterizzato e mixato @El
Fish Recording Studio (Genova) da Emanuele Cioncoloni
Chitarra e basso registrati al YourOhm
Studio da Marco Verardo
Pubblicato il 5 Marzo 2019
Formato: Cd digipack e vinile
Etichetta: Hypnotic Dirge Records
(Canada)
Qui
lo ascolti
Natural
Extinction 2019
Hypnotic
Dirge Records
(Doom, Black
Metal, Ambient)
1.
Lazarus Taxon
2.
Natural Extinctions
3.
The Void Above
4.
Litha
5.
Where Nothing Grows
6.
Rites of Passage
7.
Luminous Lifeforms
RECENSIONE
THE HAUNTING GREEN
"Natural Extinction"
Lp 2019 Hypnotic Dirge
Records
A giudicare dal logo “spinoso”,
tanto fitto e aggrovigliato da risultarmi indecifrabile, se il loro
nome non fosse riportato in stampatello anche sul dorso della
copertina, mi sarei aspettato, non avendo mai ascoltato il duo di
Pordenone, prima di metter mano al loro ultimo CD (e mi perdonino per
questa mia lacuna), dell’insano e gutturale Technical Death-Metal,
ma vedo dalla loro pagina su Bandcamp che i The Haunting Green (al
secolo, Cristiano Perin, voce, chitarra ed elettronica e Chantal
Fresco, batteria e voce), si autodefiniscono, principalmente, un più
sofisticato (e presumibilmente di più larghe vedute), gruppo Black,
Doom, Post e Sludge-Metal.
Si tratta di stili e sottostili, che
pur con tutte le riserve mentali che si possono fare, rispetto a
qualsiasi tentativo di etichettatura, mi rimandano, volendo attingere
dal mio catalogo di preferenze musicali, ad esponenti quali Mastodon,
Pelican, Sleep e Russian Circles, tanto per citare i nomi (almeno per
me) più blasonati e che più spesso si alternano nelle mie playlist,
se non agli Ahab, ai Dreamarcher o agli Omega Massif, a voler scavare
un po’ più in profondità, ma in ogni caso a formazioni ben più
articolate di un mero duo di chitarra/voce e batteria, per cui mi
accingo all’ascolto del platter con una certa dose di attenzione e
curiosità, soprattutto per come possa una formazione a struttura
minimale, interpretare un genere fortemente caratterizzato dalle
dimensioni “ciclopiche” delle sue trame sonore.
In realtà, il disco si rivela, fin da
subito, spiccatamente orientato, non solo alla commistione fra i
suddetti generi e sottogeneri, di cui il duo, senza affatto
deficitare in termini di decibel e aggressività, si dimostra dalla
prima all’ultima traccia un profondo conoscitore (ragion per cui,
Natural Extinctions non deluderà certamente chi è già
avvezzo alla materia), bensì alla loro reinterpretazione in chiave,
per così dire, “sciamanica” o “tantrica”, per l’uso
“ambientale” di certi synth e droni, che vanno a stratificarne la
proposta sonora ben oltre gli strumenti principali della band.
E così, la prima traccia (“Lazarus
Taxon”), totalmente strumentale, introduce la “classica” e
dinamica alternanza (alle mie orecchie tipicamente Post-Metal), fra
power-chord “monolitici” e crescendo in tremolo-picking, con
arpeggi dal sapore orientale (anche per un sitar o qualcosa di simile
in sottofondo), intrecciati a percussioni tribali, che sembrano voler
“iniziare” l’ascoltatore a una sorta di rituale esoterico (le
prime battute mi riportano alla “The End” dei mitici The Doors).
La title-track, a seguire, suona invece
più d’impatto, virando “mastodonticamente” verso un più truce
Sludge-Metal e “arando” un terreno più fertile per quella che è
la prima delle quattro prestazioni canore del chitarrista su tutto il
disco, le cui urla in stile Black (o Death-Metal) scandinavo (cfr.,
per esempio, gli Amon Amarth), ben si conciliano con le liriche,
inneggianti – da quel che resta di un campo di battaglia (“…after
so many battles…”) – all’inesorabile destino di un’umanità
dilaniata dai conflitti, se non da se stessa (“…a lack of empathy
is dividing us…”, “…there’s no hope to survive this time…”,
“…we are a natural extinction…”): quasi come quiete dopo la
tempesta, un intreccio di chitarre pulite e riverberate, affonda
peraltro la veemenza “bellica” del riffing iniziale verso la
sordità degli abissi marini, tingendo la proposta Black/Doom del duo
anche di certo Nautik Funeral Doom-Metal di matrice teutonica (vi
ritrovo, infatti, la stessa ricerca sonora dei sopracitati Ahab,
maestri nel riprodurre la rifrazione del suono nell’acqua,
soprapponendo effetti di riverbero a cascata).
Il terzo pezzo (“The Void Above”),
cantato come il precedente e non meno pessimista di quello, nel
preannunciare – come un cataclisma – quanto si profili
all’orizzonte umano (“…in the crypts of your eyes something
irremediable is coming…”, “…time is devouring us…”, “…and
nothing good is going to be left…”), è forse il brano in cui la
vena Black/Doom della band, con l’arpeggio “sabbathiano” che lo
introduce, spicca maggiormente e il suo fragore dà ancor più
risalto, per contrasto, alle sonorità Ambient della quarta traccia
(“Litha”), la seconda strumentale: qui, su un tappeto di
percussioni e idiofoni (o synth programmati per riprodurli), la band
va persino ad esplorare il Neo-Folk dei Wovenhand, espandendo
ulteriormente la sua proposta musicale; la traccia suonerà, nel
prosieguo dell’ascolto, come una sorta di spartiacque.
Infatti, i tre pezzi a seguire,
l’ultimo dei quali nuovamente strumentale, mostrano una band, per
così dire, più riflessiva, in cui le tinte più estreme (e
metallare) del loro caleidoscopio sonoro, lasciano spazio alla
sinuosità di un Post-Rock più melodico, che a tratti mi rimanda ai
Pelican di “City of Echoes”, sfociando –in coda alla quinta
traccia, “Where Nothing Grows”– in un finale al pianoforte
(“cameo” dell’amico Fabio Cuomo), che va ad arricchire
ulteriormente la “tavolozza” del duo e così a svelarne, in
conclusione, lo spessore artistico e la capacità di cimentarsi in
“partiture” più complesse, rispetto ai cliché dei generi e
sottogeneri sopra citati.
Quanto alle liriche, il tema di questa
parte del disco, nonostante la vena più melodica, è non meno
pessimista e catastrofico di quello narrato nei primi testi (“…this
land has no mercy on us…”) e così la penultima traccia (“Rites
of Passage”), introdotta da un arpeggio stratificato con un rapido
delay, che va ad accelerare sensibilmente il ritmo di base – più
blando e cadenzato – finora mantenuto dalla band, ci racconta
finalmente il “passaggio” evocato e minacciato in precedenza
(“…burning my ghosts…”, “…and my heart lingers in the
wonder while flames burn the paths where I came from…”).
L’ultima traccia (“Luminous
Lifeforms”), la terza strumentale, va a chiudere il cerchio aperto
con la prima, sostanzialmente ribadendo il gusto “atmosferico”
del duo e riproducendo le soluzioni stilistiche dei brani
immediatamente precedenti, quelli più tendenti al Post-Rock, ma con
l’innesto di un malinconico assolo di chitarra.
Cesare Businaro
7,5/10
Articolo ad opera
di Giusy Elle
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